Storia di un disastroso viaggio a Londra. Da tempo avevo intenzione di raccontare del mio weekend a Londra, nell’ormai lontano marzo del 1999. Ogni tanto mi capita di parlarne, estraendone frammenti mentre qualche sera fa, a tavola, ho raccontato proprio tutto con dovizia di particolari.
Ecco perché, per non dimenticarmene, lo racconto qui. Un weekend disastroso ma assolutamente memorabile.
Correva appunto l’anno 1999, ero poco più che ventenne, studiavo architettura ed ero arbitro di calcio. Sottolineo questi due aspetti perché sono stati i motivi che mi hanno permesso di conoscere una ragazza che era arbitro nella mia sezione ed aveva bisogno di una mano nel disegno tecnico.
Una sera qualunque, parlando del più e del meno dopo una riunione tecnica in sezione, mi racconta della sua difficoltà ad eseguire alcuni disegni tecnici per la scuola e la materia, educazione tecnica appunto, la metteva in seria difficoltà.
Mi piaceva particolarmente quella ragazza, bellissima, frizzante, esuberante, era impossibile restare indifferenti nei suoi confronti quindi, attratto dalla sua bellezza e personalità, mi offro di aiutarla.
Studiando architettura, facendo disegni praticamente tutto il giorno, con il tecnigrafo a portata di mano in un epoca in cui il computer e Autocad erano destinati a pochi eletti, me la cavavo abbastanza bene con la matita.
Lei accetta di buon grado la mia offerta e ci diamo appuntamento a qualche sera dopo, da me, per questo disegno. Avevo messo in preventivo che l’aiuto fosse, in realtà, “non ti preoccupare, te lo faccio io”. E così è andata. Quella sera e per diverse sere successive.
Ci guadagnavamo entrambi, in fondo. Io facevo quello che mi piaceva, disegnare, e trascorrevo la serata in sua compagnia. Lei probabilmente avrebbe preferito fare altro ma almeno portava a casa le tavole complete, corrette e si assicurava voti abbastanza buoni.
La semplice frequentazione per i disegni è diventata con il tempo sempre più intensa e senza fogli, matite e gomme.
Abbiamo iniziato a sentirci al telefono, mandarci messaggi e vederci per qualche uscita amichevole. Un caffè, un aperitivo, una pizza.
Fino a che, una sera, dopo una lezione tecnica in sezione, nell’accompagnarla a casa mi sorprende con un bacio, probabilmente premio per tutto l’impegno profuso nei giorni precedenti e e dei suoi buoni voti in educazione tecnica, migliorati improvvisamente e mantenuti alti in maniera costante fino a fine anno. Il che le aveva garantito di evitarsi il temuto esame di riparazione a settembre.
Lei finisce il suo anno scolastico, si iscrive all’università ma nonostante non ci fosse più la scusa dei disegni, continuiamo a vederci, uscire e in quei momenti i baci diventano più frequenti.
Tutto questo con la massima libertà, nessun impegno tra noi anche se – inutile negarlo – speravo che quella “semplice” frequentazione diventasse qualcosa di più serio.
Più la conoscevo, più mi piaceva. Più la frequentavo, più mi piaceva e non aspettavo altro che arrivasse il fine settimana, quando lei tornava dall’università, per poter trascorrere del tempo con lei.
Lei sembrava anche ricambiare lo stesso entusiasmo. Tanto che, arrivati a febbraio, mi propone di trascorrere un weekend insieme. Da qualche parte, a visitare una città nuova per entrambi.
Parigi no, Madrid no, Praga no ci sono andata con la scuola, Berlino no… Londra? Londra!
E Londra sia.
Quindi, durante la settimana ognuno pianificava una parte della visita e nel weekend ci confrontavamo sulle idee per trovare la soluzione comune.
Stabiliamo il giorno della partenza, volo RyanAir con partenza da Genova. Suo padre è disponibile ad accompagnarci all’aeroporto, volo Genova – Londra alle ore 20, confermato.
Fino a qui, tutto perfetto. Idilliaco.
La vigilia
Arriviamo alla sera prima della partenza. Sistemo lo zaino per il viaggio, macchina fotografica in carica, tutto pronto. Vado da lei per definire gli ultimi dettagli e dal momento in cui varco la soglia della sua camera, si apre il baratro.
Arrivo da lei alle 20.45 circa, mi accoglie in camera alla scrivania con un sorriso e, sempre stando seduta, si volta a guardarmi. Sorridente. Dopo il “ciao”, la frase continua con:
“Sai, sono giorni che ci penso e non riesco più a non dirlo”.
“Cosa?”
“Credo di essere davvero innamorata”.
Hai presente la sensazione levitare e camminare ad uno o due metri da terra? La sensazione delle farfalle nello stomaco? Le campane degli angeli che suonano a festa? Tutte le cose che una frase del genere può suscitare?
Ecco, le stesse, tutte insieme. Stomaco contorto, farfalle, sensazione di volare, campane, luci, stelle, arcobaleni, musica. Il trionfo dei sentimenti. Dopo mesi, mesi e mesi di disegni, di frequentazione, di bacini, bacetti, bacioni, dopo momenti di intimità, coccole e un susseguirsi di emozioni, non mi sembra vero di sentire quelle parole pronunciate da lei. Da lei, a me.
Un desiderio, un sogno che si delinea, contorni perfetti, momento perfetto. La sera prima di partire per il nostro primo weekend insieme, lontani, soli, lei confessa di essere innamorata.
Non è possibile, non è possibile…e infatti non è.
Tutte queste immagini che si sono susseguite in un lampo nella mia testa, nel tempo della pausa tra le due parole. Infatti la sua frase continua con “di un mio compagno di università”.
Con la stessa velocità con cui ho costruito tutta quella sequenza di immagini romantiche, sento il rumore di un vetro infranto con i cocci che si spargono ovunque, affilati e taglienti come lame.
Riesco solo a pronunciare un laconico “Ah” mentre sento la pioggia di vetri lacerarmi fino all’anima. Guardo l’ora. Sono trascorsi quattro minuti dal mio arrivo e in soli duecentoquaranta secondi la mia visione romantica si è stravolta completamente. Crollata. Disintegrata.
“Ma partiamo lo stesso eh! Vorrei approfittare di questi giorni insieme per capire quanto sia reale questo sentimento”.
“Certo, partiamo lo stesso. Ma ora è meglio che torni a casa. Ci vediamo domani sera.”
Puoi immaginare quanto pesasse il mio cuore allontanandomi dalla sua stanza prima e da casa sua poi. Quanto pesassero i passi. Quanta nebbia velasse i miei occhi ed i pensieri. Saremmo partiti lo stesso. Perché? Avrei dovuto rinunciare? Avere abbastanza carattere da rispondere “Col cavolo che partiamo!” e sbattere i biglietti sul tavolo. “Vai pure a Londra con il tuo compagno di università”. Questo avrei forse dovuto dire.
Ma se poi si fosse ricreduta? Se poi fosse stata meglio con me che con lui? Mi sarei dovuto giocare tutte le mie carte, avrei dovuto dare il meglio di me in quei 3 giorni insieme.
Questo genere di lieto fine succede solo nei film e nemmeno sempre. Ma già che c’ero, valeva la pena provarci.
Il giorno dopo, in un imbarazzato silenzio, raggiungiamo l’aeroporto di Genova con largo anticipo. Volo alle ore 20, noi siamo lì circa due ore prima.
Qui, come a Genova, era piena primavera, temperatura mite, piacevole. Parto da casa pensando che, con questa temperatura, abituato ad arbitrare con divisa a maniche corte e pantaloncini, sia d’estate che d’inverno, a cosa potrà mai servirmi un giubbotto? Sono abbastanza sicuro che sia una zavorra inutile e resta a casa come buona parte del mio entusiasmo.
Arriva il momento dell’imbarco ma il volo è in ritardo. Non parte alle 20 ma alle 21.
Verso le 21, altro ritardo. L’aereo partirà alle 23. Poco prima della partenza ci avvisano che l’aereo sarebbe partito alle 2. In tutta quell’attesa, lei è rimasta al telefono con il suo compagno di università, quasi ininterrottamente.
Finalmente alle 2 riusciamo a partire, arriviamo all’aeroporto Stansted di Londra alle 2.30 circa (ora locale) e da lì dobbiamo ancora raggiungere la capitale.
Dalla temperatura primaverile di Genova, spunto dall’aereo alle 2.30 di notte con circa -2°. Un freddo pazzesco ed io avevo un maglione leggero nel bagaglio ed indossavo una semplice e leggera maglia a maniche corte. Sono congelato in un attimo.
Scendiamo dall’aereo e probabilmente nel breve percorso dalla scaletta a terra mi sono ammalato. Ho proprio sentito il malessere crescere, scalino dopo scalino.
A quell’ora non troviamo bus che colleghino Stansted a Londra quindi, per evitare di dormire in sala d’attesa nell’aeroporto, siamo obbligati a prendere un taxi. Indico la destinazione e mando un sms per avvisare a casa che sono arrivato, salvo anche se poco sano.
Due ore di taxi dopo, il black cab ci lascia davanti all’hotel. Scarichiamo gli zaini, l’autista chiude il bagagliaio e riparte. Quando la sagoma del taxi è quasi un puntino, mi accorgo di aver lasciato il cellulare sul sedile. Non avevo alcun riferimento del taxi, targa, numero dell’auto, niente.
E quello, di notte, credo che non vedesse l’ora di rientrare e finire il turno. E poi anche se avesse notato il mio telefono sul sedile posteriore, tanto di guadagnato.
Altra fitta a livello delle costole.
Sono le 4 del mattino e quello che sarebbe dovuto essere l’hotel prenotato non ha alcuna luce accesa. Suoniamo ripetutamente il campanello e finalmente un tizio assonnato viene ad aprirci. Giustamente si lamenta dell’orario visto che saremmo dovuto arrivare non più tardi di mezzanotte ed è quasi l’alba.
Anche per quanto riguarda l’hotel, è doverosa una precisazione.
Non ricordo il nome ma ricordo con esattezza il motivo per cui avessi insistito per quella scelta. Al di là del fattore economico, si trovava nella zona Earls Court per un motivo preciso.
Senza la disponibilità odierna di smartphone e mappe digitali, avevo individuato quell’hotel perché molto vicino a Logan Place, dove si trova Garden Lodge, ovvero la casa di Freddie Mercury. Che per me era meta di pellegrinaggio.
Uno dei motivo del viaggio a Londra, uno dei motivi per cui fossi partito ugualmente dopo quella bastonata della vigilia, era la possibilità di andare ad accarezzare la porta di Garden Lodge con tutto il carico di emozioni che quella visita avrebbe comportato. Da mappa cartacea mi risultava che fossimo ad una distanza di 10/15 minuti a piedi.
Quasi all’alba saliamo in camera infreddoliti, distrutti non tanto dal viaggio ma da tutta l’attesa e dagli spostamenti. Io, oltretutto, ammalato. Sempre di più. Mal di gola, mal di testa, tosse.
Inspiegabilmente la temperatura della stanza, invece di essere calda e confortante, è praticamente identica a quella esterna. Come possibile? I termosifoni, credo fossero quelli, erano caldi. Scosto la tenda e la grande finestra che si affacciava sul nulla, una finestra che doveva otto vetri quadrati, ne aveva solo cinque. Ne mancavano ben tre e da quei buchi entrava tutto il freddo di Londra.
Eravamo troppo stanchi, era troppo tardi per reclamare. Già era tanto che ci avessero aperto e fatto entrare. Ci saremmo lamentati la mattina dopo.
Storia di un disastroso viaggio a Londra, primo giorno
La mattina seguente o, vista l’ora, quella stessa mattina, ci svegliamo intorno alle dieci. Poche ore di sonno, avvolti dalle coperte per iniziare l’avventura londinese. Mi sveglio peggio di come mi sono addormentato. Credo che la febbre fosse salita, la tosse pure e così il mal di gola. Dolori sparsi ovunque. Ma non cedo.
Scendiamo alla reception per far presente il problema della finestra e ci accoglie il proprietario, un signore di mezza età, italiano con spiccato accento campano. Spieghiamo la situazione e ci rassicura che in giornata avrebbe provveduto a sistemare la finestra nel tempo in cui noi saremmo stati in giro per Londra.
Primo obiettivo di quella mattina, vista la situazione, era cercare una farmacia ed un negozio dove comprare un giubbotto.
Mi imbottisco di paracetamolo e andiamo a cercare un giubbotto, partendo da Piccadilly Circus per proseguire verso Carnaby Street.
Mi infilo in un negozio, scelgo un capo abbastanza caldo per combattere il freddo londinese e pago 33 pounds con la carta di credito e ce ne andiamo.
Finalmente sono coperto e ho ingoiato qualcosa che inizia a farmi stare meglio. Da lì proseguiamo il nostro tour a piedi verso Soho, British Museum e qualcos’altro che, date le condizioni fisiche nemmeno ricordo. Forse l’ultima tappa della giornata era la cattedrale di St. Paul e poi cena e rientro per andare a letto a dormire. Al caldo.
Torniamo in hotel, tra bus e metropolitana e al rientro ci accoglie il direttore che anticipa la nostra domanda sulla finestra. Purtroppo non era riuscito a rintracciare un vetraio ma aveva comunque sistemato alla meglio la finestra. Non c’erano altre stanze libere e non ci avrebbe restituito i soldi, il riassunto della situazione era questo.
Saliamo in camera e la differenza di temperatura tra esterno ed interno era impercettibile. Ma non aveva sistemato alla meglio? Sì, con dei fogli di giornale attaccati al legno della finestra con del nastro adesivo.
Doccia bollente e via, sotto le coperte per affrontare un’altra notte al freddo.
Secondo giorno
Il secondo giorno a Londra non va meglio del primo anzi, forse anche peggio. Essere imbottito di farmaci non ha giovato e il malessere non accenna a diminuire.
Scendiamo nella hall dell’hotel e, oltre ad assicurarci che in quel giorno il direttore avrebbe sistemato la finestra, chiedo indicazioni su Garden Lodge.
“Ehhhh… ma quella sta sulla Fulham Road. Dalla Fulham Road poi vai verso Putney e la casa di Freddie Mercury sta là!”
Ci mostra lo stradario e il percorso da fare. Meglio a piedi, dice lui, così ne approfittate per vedere le zone meno turistiche di Londra. Vista l’esperienza con il taxi, accolgo il suo suggerimento tanto, quanto sarà mai da lì a Putney…e poi, insomma, per vedere la casa di Freddie Mercury riesco a sopportare un piccolo sforzo.
Anche se ero proprio convinto che fosse più vicina all’hotel. Ma probabilmente sbagliavo.
Dopo un’ora a piedi, arriviamo sì nei pressi del Putney Bridge ma non abbiamo idea di dove possa essere la casa di Freddie Mercury. Il nostro inglese poi non è dei migliori per poter chiedere indicazioni e soprattutto comprendere le risposte.
Rinunciamo, per quel giorno anche se ormai mi resta solo qualche ora del giorno successivo, prima di ripartire per l’aeroporto e tornare in Italia.
Con il bus torniamo verso il centro per vedere altro.
Nel frattempo mia madre chiama il numero della mia compagna di viaggio.
La sua voce è preoccupata.
“Si può sapere cos’hai comprato a Londra?”
“Un giubbotto – rispondo – perché?”
“Perché hanno chiamato dalla banca. Hanno bloccato la tua carta di credito perché hai superato il limite di spesa mensile e perché hai cercato di comprare altro su internet!”
“Ma ho comprato un giubbotto da 33 pounds, saranno 90.000 lire!”
“Bè, comunque ti hanno bloccato la carta. Hai speso più di 2 milioni e mezzo!”. Di lire, naturalmente, che era il plafond massimo della mia carta.
Telefonata finita, sangue gelato.
Quindi potevo contare solo su quel poco contante che avevo con me. Niente telefono, niente carta di credito. Febbre e bronchite e non ero nemmeno ancora riuscito a vedere la casa di Freddie Mercury.
Senza abbattermi troppo, seppure potessi avere più di un motivo per farlo, riprendiamo il nostro giro. Altro museo, Kensington Garden e foto nelle cabine telefoniche rosse per concludere la giornata da Harrods, da qualche parte. Niente shopping (anche perché avevo disponibilità limitate), solo un giro a curiosare qua e là.
Dato che ero nel pieno dell’età stupida, nonostante la febbre e i dolori sparsi, non mi era passata la voglia di “cazzeggiare”. Così scavalco la transenna che avrebbe dovuto impedire l’ingresso in un’area di esposizione, giusto per farmi fotografare seduto al pianoforte con il pupazzo gigante di Winnie The Pooh. Ho avuto giusto il tempo della foto perché immediatamente sono arrivati due giganti della sicurezza e con gentilezza mi hanno accompagnato all’uscita. Avranno anche detto qualcosa ma non ho capito. Il mio giro da Harrods è finito così.
Febbricitante, con la tosse, senza cellulare, con la carta di credito bloccata, la mia amica che poteva essere la fidanzata innamorata di un altro e senza aver raggiunto il mio primo obiettivo del viaggio a Londra. Ora espulso da Harrods.
Rientriamo in hotel per l’ultima notte ed è inutile dire che, essendo sabato, il vetraio per sistemare la finestra della camera non si è visto. O forse non è nemmeno stato cercato. Ultima notte a Londra, il giorno dopo avremmo avuto qualche ora e poi il ritorno. Quelle ore è chiaro che sarebbero diventate cruciali per andare a Garden Lodge. Niente e nessuno, pensavo, mi avrebbe impedito di togliermi almeno quella soddisfazione.
Lo pensavo.
Ma non avevo fatto i conti con il fatto che in due giorni avevamo camminato tantissimo, che gambe, piedi, ginocchia imploravano pietà così come la schiena. Che la febbre persisteva. Ci addormentiamo con l’idea di svegliarci all’alba, raggiungere Garden Lodge, foto di rito e poi bus per l’aeroporto.
Ultimo giorno della storia di un disastroso viaggio a Londra
L’ultima mattina le cose sono andate diversamente.
Ci svegliamo dopo un lungo sonno e siamo già in ritardo sulla tabella di marcia. In più, aggiungiamoci che la mia “amica” proprio quella mattina decide di fare la smorfiosa.
“Ho mal di schiena, mi faresti un massaggio?”
Certo, che problema c’è. Non sono esperto di massaggi ma ho le mani grosse e riesco a manipolare abbastanza bene le zone dolenti. Era già capitato anche nelle sere innocenti che mi proponessi o che mi chiedesse un massaggio alle spalle o alla schiena.
Si volta, prona sul letto, per farsi massaggiare le spalle e la zona lombare.
“Il pigiama mi da fastidio, posso toglierlo?”
Certo. Così toglie la maglia del pigiama restando in intimo.
Proseguo il massaggio evitando con cura ogni zona “pericolosa”.
“Se vuoi, tolgo il reggiseno, così hai la schiena libera”.
E togli il reggiseno. Intanto sei girata, insomma.
Via il reggiseno.
Poi si volta, mi guarda e si gira, supina.
Trattengo il respiro, sì.
“E se ti chiedessi di più?” domanda con voce ammaliante.
Sopra di lei, seduto sulle sue gambe, lei mezza spogliata che mi provoca. La tentazione è tanta. Tantissima. Di andare oltre e, come canta Califano, «dimostrare che al mondo solo tu sai far l’amore».
L’occasione per farla ricredere, alla fine di un viaggio pieno di sfighe, dal primo all’ultimo giorno e, all’improvviso, la svolta. Insperata. Che cambia tutto, apre nuovi scenari.
Riprendo a respirare, dopo l’apnea di qualche secondo e la guardo, dall’alto. Potrei dire sì, potrei spostare le coperte, i cuscini, togliere la restante parte del pigiama. Non sarebbe un azzardo, me lo ha chiesto lei.
E così, le accarezzo il fianco, una pacca delicata sulla pelle morbida e vellutata del suo corpo e rispondo l’unica cosa che il mio cervello riesce a partorire, frutto di una valanga di pensieri che si sono susseguiti nei giorni precedenti, durante il soggiorno a Londra e in quel momento, sul letto, in una stanza fredda ma dove la temperatura si è improvvisamente scaldata.
“Vado a farmi una doccia”.
Questo è il meglio che sia riuscito a dire e a fare.
Mi alzo e mi lascio avvolgere dall’acqua calda della doccia. Non fredda perché non ero io a dover calmare i bollenti spiriti. Una lunga, interminabile doccia da cui sono uscito con la pelle del corpo consumata, raggrinzita e fumante.
Nel frattempo lei si è rivestita. Cioè, spogliata del pigiama, rivestita e ha preparato lo zaino. Io ci ho messo poco di più ma mi sono sbrigato in fretta e siamo usciti con i nostri bagagli. In silenzio.
Scendiamo e non c’è tempo di tergiversare. Dobbiamo andare a cercare Garden Lodge.
Controllo l’orologio perché, in tutta quella confusione di sensazioni, sensi, momenti, bagagli e doccia, ho perso la cognizione del tempo.
Sono quasi le 12 e l’imbarco sull’aereo è previsto per le 16. Quindi alle 14 dobbiamo partire per l’aeroporto. Ma le 16 ora inglese o italiana? Perché se fosse l’ora italiana, a Londra sarebbero le 15 e con due ore di strada da percorrere saremmo in ritardo e a rischio di perdere il volo. Sul biglietto non è indicato il fuso orario.
Ecco che ci viene in aiuto il direttore dell’hotel che, dall’alto della sua esperienza, ci spiega che “avete acquistato il biglietto in Italia, quindi l’ora è quella italiana no?”. Giovani, inesperti, confusi non ci poniamo più di tanto il problema. D’altra parte come non credere ad un tizio che si è sbattuto così tanto per sistemare una finestra, incollandoci dei fogli di giornale?
Per fare prima scegliamo di prendere un taxi. Che arriva subito e ci porta subito a Stansted. Due ore di strada, non c’è tempo per soste e deviazioni. Prima di salire, rivolgo un ultima, disperata, domanda al direttore dell’albergo. “Ma la casa di Freddie Mercury?”
“Ah, la casa di Freddie Mercury sta qua dietro. Saranno duecento metri”.
“Ma…come?”
“Eh…avevo capito quella di David Bowie”.
Lo sapevo. Lo sapevo. Avevo scelto quell’hotel perché vicino a Logan Place e quello mi ha mandato dall’altra parte di Londra.
Non ho insistito perché non ero sicuro ma non potevo essermi sbagliato così tanto. Eppure gli ho creduto. Come gli ho creduto per la storia del vetro. Come ho creduto alla storia dell’orario del volo.
Le ore 16 erano ora locale. Non quella italiana, ovviamente.
Chiudo la portiera ed il taxi parte.
Portandosi via l’ultima speranza di vedere Garden Lodge e portandomi via da Londra dove ho smarrito il telefono, dove mi hanno clonato la carta di credito per un giubbotto che, a conti fatti, è costato 2,5 milioni di lire, dove mi sono fatto buttare fuori da Harrods ed in ultimo ho rifiutato la proposta della ragazza che, fino a qualche giorni prima, era la persona che desideravo di più.
Che poi in aereo mi ha anche ringraziato per non aver approfittato di un momento di debolezza.
Non sono più tornato a Londra, per il momento. Della casa di Freddie Mercury, dopo l’asta dei mesi scorsi, non è rimasta più nemmeno la porta e quel viaggio è stato davvero l’ultima occasione tante cose.
Note.
Al rientro la banca ha effettuato delle verifiche e ha riscontrato un’anomalia nelle operazioni. Praticamente io avrei acquistato online del vino per il plafond massimo della mia carta con indirizzo di destinazione che non coincideva con il mio. Per fortuna mi hanno rimborsato.
La mia amica si è fidanzata con il suo compagno di università e penso che sia rimasta con lui per diverso tempo. Ci siamo completamente persi di vista dopo il ritorno. Lei si è trasferita a Milano e mi capita solo di ricevere qualche aggiornamento nei feed dei social dove non siamo nemmeno amici ma mi viene suggerita come tale.