Ogni tanto rileggo Castelli di rabbia di Alessandro Baricco. Magari non tutto, a tratti.
La prima volta che l’ho letto me ne sono innamorato e l’ho riletto più volte, magari saltando qualche pagina per andare a cercare le sottolineature, quei tratti che hanno avuto un particolare valore e tra i tanti mi soffermo spesso su queste poche ma significative righe.
Vecchio, benedetto, Pekisch, questo non me lo dovevi fare.
Non me lo merito.
Io mi chiamo Pehnt, e sono ancora quello che se ne stava sdraiato per terra a sentire la voce nei tubi, come se quella arrivasse davvero, e invece non arrivava. Non è mai arrivata.
E io adesso sono qui. Ho una famiglia, ho un lavoro e la sera vado a letto presto. Il martedì vado a sentire i concerti che danno alla sala Trater e ascolto musiche che a Quinnipak non esistono: Mozart, Beethoven, Chopin. Sono normali eppure sono belle.
Ho degli amici con cui gioco a carte, parlo di politica fumando il sigaro e la domenica vado in campagna.
Amo mia moglie, che è una donna intelligente e bella. Mi piace tornare a casa e trovarla lì, qualsiasi cosa sia successa nel mondo quel giorno. Mi piace dormire vicino a lei e mi piace svegliarmi insieme a lei. Ho un figlio che amo anche se tutto fa supporre che farà l’assicuratore. Spero che lo farà bene e che sarà un uomo giusto.
La sera vado a letto e mi addormento. E tu mi hai insegnato che questo vuol dire che sono in pace con me stesso. Non c’è altro. Questa è la mia vita.Io lo so che non ti piace ma io non voglio che tu me lo scriva. Perché voglio continuare ad andare a letto, la sera, ed addormentarmi. Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale.
Mai visto niente del genere, a Quinnipak. Ma forse proprio per questo, io qui ci sto bene. A Quinnipak si ha negli occhi l’infinito. Qui, quando proprio guardi lontano, guardi negli occhi di tuo figlio. Ed è diverso. Non so come fartelo capire, ma qui si vive al riparo. E non è cosa spregevole. È bello. E poi chi l’ha detto che si deve proprio vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l’impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà.È proprio obbligatorio essere eccezionali? Io non so. Ma mi tengo stretta questa vita mia e non mi vergogno di niente: nemmeno delle mie soprascarpe.
C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità. E io sono uno di quelli. Si guardava sempre l’infinito a Quinnipak, insieme a te. Ma qui non c’è l’infinito. E così guardiamo le cose, e questo ci basta. Ogni tanto, nei momenti più impensati, siamo felici. Andrò a letto, questa sera, e non mi addormenterò. Colpa tua, vecchio, maledetto Pekisch. Ti abbraccio. Dio sa quanto ti abbraccio. Pehnt, assicuratore.
Trovo sia un brano davvero interessante, profondo. Che mette in risalto quanta meraviglia ci possa essere in una vita comune, qualunque, nella vita delle persone che non ti volti a guardarle quando ti passano di fianco, quelle che brillano nel loro mondo e non nel mondo.
Quelle che non calamitano gli sguardi. Quelle che non si inseguono perché non ne vale la pena.
Persone che sono mestamente consapevoli di tutti i loro limiti e della loro condizione ma che non si tirano mai indietro anche se sanno già in partenza che non vinceranno mai.
Si spaventano, questo sì. Ma non si arrendono.