Un paio di giorni fa, durante il viaggio di ritorno da una riunione con un cliente, per tutta la strada ho pensato ad alcune parole pronunciate durante il nostro incontro, soffermandomi a valutare il peso che queste possano avere nell’economia di una discussione ma anche nel tempo a venire.

Proprio mentre guidavo, alla radio hanno trasmesso la canzone degli Stadio, “Un giorno mi dirai“, che ha vinto il Festival di Sanremo 2016 ed è stata un’ulteriore occasione per riascoltare le parole, seppur assorto nei miei pensieri. Come avevo già avuto modo di precisare, ci ho messo un po’ di tempo per convincermi della bontà del testo che, per quanto bellissimo, include pensieri e termini che io non avrei mai utilizzato riferendomi ad un figlio/a, come «ho rinunciato alla mia felicità per te».

Ecco, dopo l’ennesimo ascolto, ritengo che nel testo degli Stadio sia stata fatta una scelta poco attenta delle parole soprattutto riguardo il futuro che verrà.

Per quanto i testi delle canzoni seguano regole indipendenti da una grammatica corretta e dai costrutti regolari per mantenere una sorta di musicalità del testo, quelle che vengono definite “licenze poetiche“, utilizzare delle parole piuttosto che altre senza che queste stravolgano il senso del proprio pensiero potrebbe essere un’opportunità da tenere in considerazione.

Ci sono momenti in cui si perdono i filtri e le parole escono come un fiume in piena, dettate dall’emozione o dalla tensione ed in quei frangenti potrebbe essere difficile selezionare il vocabolo più idoneo. Ma quando si ha del tempo a disposizione, quando si può leggere e rileggere un testo, si dovrebbe riuscire a valutare il significato di un termine e, magari, correggere il tiro.

Parlo nello specifico del testo della canzone degli Stadio perché, dal mio modo di vedere, credo sia stato un azzardo destinare la canzone alla figlia con l’uso del verbo rinunciare.

E’ vero che grammaticalmente il verbo rinunciare abbia un’accezione praticamente neutrale e, come riporta il vocabolario Treccani, significa «cedere di propria volontà e con chiara decisione qualcosa che già si possedeva con pieno diritto. Non voler accettare qualcosa che si dovrebbe avere. Astenersi per necessità, per opportunità o spontaneamente, per libera scelta, dal fare qualcosa che pur si potrebbe e a volte si vorrebbe fare».

Anche se si parla di “propria volontà”, nel verbo rinunciare è latente una sorta di rammarico: «avrei voluto fare o avere una cosa ma ho rinunciato per farne un’altra che mi va comunque bene, ma non quanto la prima».

Per esempio, «avrei voluto comprare quell’orologio ma ho rinunciato per fare la spesa». E’ solo un esempio banale ma è ovvio che l’orologio in questione era la prima scelta, volevo quell’orologio ma non ho potuto acquistarlo perché era più urgente e necessario fare la spesa al supermercato. La spesa è utile, fondamentale, indispensabile molto più dell’orologio ma la rinuncia porta ad un senso di insoddisfazione. Non parlo di capriccio, ma di scelta che, forse, potrebbe essere il termine più adeguato per indicare l’orientamento verso una cosa o l’altra.

Quindi la strofa «ho rinunciato agli occhi suoi per te» sarebbe potuta essere «ho scelto te (rispetto) agli occhi suoi» oppure «ho preferito te agli occhi suoi» e con una semplice sostituzione il destinatario avrebbe ben chiaro che è lui/lei la prima opzione. «Sai, c’era da fare una scelta ed io non ho esitato, tra i suoi occhi e te, ho scelto te. Ho preferito te. Consapevolmente. Felicemente».

Suona leggermente diverso da «gli occhi suoi mi piacevano tantissimo, ero innamorato del suo sguardo e stavo bene quando li incrociavo, ma sei arrivata/o tu e… ho rinunciato a lei».

Peggio ancora se io dicessi a mio figlio «un giorno ti dirò che ho rinunciato alla mia felicità per te» forse, con le dovute spiegazioni, riuscirei a giustificare la frase ma, ad ogni modo, gli avrei caricato sulle spalle un fardello davvero pesante. Io ero felice ma ho rinunciato alla mia felicità perché fossi felice tu. Però sappi che mi spettava di diritto essere felice tanto quanto spetta a te e rinunciare è stato pesante e sono combattuto tra rimpianto e rimorso.

Parlare di rinuncia della felicità riferiti ad un figlio è un’eresia, un’esternazione che – anche nel caso in cui fosse vera – sarebbe bene seppellirla per sempre nel più recondito angolo dei propri pensieri e mai farla riaffiorare.

Nemmeno in altri termini, nemmeno con altre parole.

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