Quando ancora ero arbitro F.I.G.C. e tornato alla OTP per la sezione di Vigevano, in occasione di un torneo estivo l’allora presidente volle premiarmi facendomi dirigere la finale per il primo e secondo posto, premiando il mio impegno e la mia dedizione, commentando con un particolare che mi rimase in gola allora e che ancora oggi non ho deglutito «sarà l’unica finale che dirigerà».
E’ vero, aveva ragione. È stata l’unica finale di un torneo estivo che sono stato chiamato a dirigere ma ho avuto la fortuna di poter essere il direttore di gara per altre partite più importanti e di altra categoria. E se non sono state finali, sono stati spareggi e poco si discosta dall’idea di partita conclusiva.
Con il tempo ho abbandonato la sezione di Vigevano che, intanto, ha cambiato nome, faccia e facce e la considero un’altrettanta fortuna. Non mi sarei più riconosciuto in quella nuova associazione in cui, del passato che ho vissuto (altra fortuna) non è rimasta alcuna traccia, se non una sala intitolata al Presidente, quello con la P maiuscola.
Però ho indossato e indosso ancora la divisa, non in veste ufficiale, ma con lo stesso impegno e amore di sempre, nonostante sia cambiato io, sia cambiato il mio stato d’animo e siano cambiati diversi particolari. Il campo non è lo stesso, il numero di giocatori non è lo stesso, il regolamento non è lo stesso ma il mio ruolo, per quanto denigrato, sì. Con le stesse emozioni indosso la divisa, con la stessa ansia controllo di avere tutto, fischietti, taccuino, cronometro, monetina, elastici (nel calcio a 11 non servivano). Gli stessi pensieri affollano la mia testa mentre percorro i pochi passi che mi conducono al centro del terreno di gioco, poche raccomandazioni, qualche battuta per stemperare la tensione, ancora uno sguardo per assicurarmi che tutto sia pronto e si comincia.
Guai a dare tutto per scontato, guai a sottovalutare ogni singola azione perché è proprio in quell’attimo che arriva l’errore. Succede sempre così.
Domani sarà il giorno delle finali, per chi sarà in campo e ci ha creduto, impegnandosi almeno una volta alla settimana, sarà il “grande giorno”. Non importa se non sia un torneo ufficiale, non importa l’amicizia tra compagni di squadra e avversari, domani chi gioca lo fa per vincere, una volta di più.
E insomma, sarà anche il mio grande giorno. Perché ci ho creduto, perché mi sono impegnato come i giocatori in campo e se le ginocchia mi daranno sufficiente tregua, sarò lì fino all’ultimo fischio. Arbitro. Il giorno della finale, non importa quale sia il trofeo in palio, ognuno rincorre la propria Champions League, ogni partita è una finale in base alla sfera personale e all’ampiezza delle proprie vedute.
Questa, quindi, è una sorta di “notte prima degli esami”, la vigilia di una giornata importante in cui sarò protagonista nel bene e nel male.
Non so come gli arbitri vivano la vigilia di un giorno importante, forse restano isolati dal resto del mondo o restano uniti come squadra per per trovare la giusta concentrazione e poi riposano in vista dell’incontro del giorno seguente. Io cercavo di avere meno impegni possibili alla vigilia perché fosse un giorno di scarico fisico e mentale, TV, libri e poi a letto presto. Ma quel tempo, appunto, è passato e trapassato. Ora avrei preferito non essere qui a scrivere della mia finale ma avere un sollievo morale differente.
Domani in tribuna ci sarà chi esulterà per le reti segnate, si arrabbierà per occasioni sbagliate ma tutti, in comune, avranno quella sorta di odio represso che trova sfogo solo verso l’arbitro, figura che ci deve essere e per cui si vince nonostante la sua presenza o si perde per le sue decisioni.
L’arbitro non ha motivo di guardare verso le tribune, nessuno tifa per lui e solo per lui. Nemmeno quando lo chiede per rendere partecipi del suo grande giorno, per avere qualcuno verso cui alzare lo sguardo, in un rapido incrocio che conferisce una carica infinita al proprio animo.