Il gran” giorno è arrivato ed è passato, quasi in sordina. Tutta l’euforia, il brivido e l’emozione iniziali hanno lasciato il posto ad misto di… Non so nemmeno come definirlo. Forse rammarico, generale.

Sì, bello tornare al campo da arbitro. Bello indossare nuovamente la vecchia divisa, rimettere in tasca i cartellini, stringere nella mano il fischietto – non uno qualunque, il primo e quello che solo a distanza di anni ha emesso il fischio migliore (ma questa è un’altra storia).

Schierarsi a centrocampo, avvertire i giocatori che avrei sbagliato (lo sapevo in anticipo) ma che non avrei tollerato proteste oltre le righe. Tutto bello ma solo apparentemente.

Perché in verità non è stato poi così tanto bello. Ho perso l’abitudine, ho perso lo smalto, ho perso la carica. Sono passati troppi anni dall’ultima volta e sono completamente arrugginito. Nel vedere, nel giudicare, nel replicare e nel tollerare. Anche nel muovermi.

Ho fatto la mia parte, ho cercato di dare il meglio che potessi fino all’ultimo fischio, sopportando quando è stato necessario farlo, reagendo in altre circostanze, rispondendo e fischiando con la consapevolezza che qualcosa fosse cambiato.

Io sono cambiato insieme a tutto l’amore che avevo per il ruolo di arbitro. Anche per qui non si tratta di essere arbitro, ma di fare l’arbitro. Una differenza non tanto piccola come possa sembrare.

A pensarci bene, ieri sera dovevo essere lì per le mie necessità, per una voglia mai sopita ma avrei voluto essere altrove. Oppure avrei voluto essere lì, ad affrontare le reazioni ai miei errori, sapendo di non essere da solo anche se l’arbitro è una figura che, intrinsecamente, è sinonimo di solitudine.

Nonostante i dieci sul campo, nonostante quelli fuori, nonostante gli amici presenti pronti a sostenere, è mancata almeno una presenza. Per ogni fischio emesso c’era l’amore della mia vita, innamorato dei miei fischietti. Ad ogni fischio il mio pensiero era lì, con lui. Ma avrei voluto non essere solo, ancora una volta.

Sarebbe bastato proprio poco invece del solito niente perché, in fondo, ero lì a rischiare di farmi “sbranare” da giocatori più o meno educati per tanti motivi di cui solo l’ultimo riguarda la mia passione. E pazienza se ho concluso stanco morto, con le ginocchia che gridavano pietà e se oggi devo simulare di star bene, nonostante zoppichi vistosamente.

Niente. Ci ho sperato fino all’ultimo e invece niente. Niente di nuovo.

Non è arrivata nemmeno alcuna domanda, «com’è andata?», «come sei stato?», «com’è stato?». Da nessuno che per me conti davvero. Gli amici lo sapevano, inutile chiederlo ancora. Invece chi non c’era, non c’è stato nemmeno col pensiero.

Chi si lamenta perché io parli poco è perché ha smesso di chiedere, di interessarsi, di voler sapere. E non ha idea del male che faccia.

Categorizzato in:

Taggato in:

, ,